Piglio, la peste del 1656

di Giorgio Alessandro Pacetti


 

In un documento rinvenuto dal prof. Stefano Parenti nell’archivio Colonna di Roma (busta Piglio III- “Le corrispondenze dal 1560 al 1730), riguardanti l’epidemia di peste del 1656), l’arciprete del Piglio Domenico Janardi in data 1° Novembre 1656 così scriveva al Principe Colonna:

Em.mo et Rev.mo Sig.re P.one Col.mo,  Mi trovo come Navicella in mezzo al mare senza guida smarrita nel più profondo fondo di travagli et disgusti, se bene ho pigliato fin animo coraggioso, dubito di restar privo di tutte le mie pecorelle datemi in custodia da V.E., et in tanto poco tempo diventar Pastore senza gregge avendo fatte tante fatiche in radunarlo a Dio, con far continuamente orazione di quaranta sacrificij Processioni, che questo Popolo s’avesse mantenuto in Pace et tranquilla quiete, et hora mi vedo come  Marinaio restar senza Barca, et Pastor senza greggie, con pericolo grande di restar privo anch’io della Vita. Ritrovandomi solo in continue fatiche, non solo nella  Terra ma anche nella Campagna per non perdere le povere anime. Devo  per scarico della mia Coscienza avisar V.E., ma prima col darli buona nuova che ho tanto esclamato a questo Popolo una Mutazione della Vita, lasciar   vizi, in particolare tanti latrocinij et che sarebbe stato mai liberato  da tal flagello di Dio perché li Peccati nostri meritano di peggio. E’ apparsa la Madre Sant.ma in una iconetta fuor delle Mura, cominciando in ore stultorum, che si commosse tanto questo popolo che è cosa da non credere et ivi con strilli et scalzi tutti, con gridi che arrivavano fino in Cielo. Unitamente con il Sig. Governatore trovammo alcuni segni et con domandar Misericordia, le Donne si cavarno l’Anelli dalle dita, che mi furono consegnati subito in numero trenta quattro, et Denari scuti trenta la Biancaria non c’è numero ancora et di qualche considerazione. E.mo Sig. Mio, il flagello è troppo grande, Meritiamo peggio, si spera dalla misericordia di Dio qualche gratia; non mi dispiace di Morire perché son certo ma vorrei rassegnarli tutti a Dio e non perderli. Li mando la nota di tutti li morti, et quelli con il segno della Croce non si sono confessati, con tutto che sia andato tre volte a far l’istanza, non me ne meraviglio perché tale vita, finis vita del resto tutti stati rassegnati a Dio come meglio ho potuto che non venuto laborem non mi dispiace altro che quando vado alla Campagna non ci è aiuto ne da frati ne da preti che tutti son serrati e stanno da lontano it nomen D.ni Benedictum et quel che peggio mi trovo senza preservativi, et senza rimedio alcuno, altro la mia fede nella speranza di Dio. Intanto prego Dio della sua Santa Benedizione et prego Dio per questo Popolo, et con le lagrime à gl’ochi  lascio la penna, et gli fo profonda riverenza. Dal Piglio il p° di 9.bre 1656 D.V.E, Obb.mo Ser,re Vero Dom.co Janardi Arcip.te  del Piglio”.

Lo stesso Domenico Janardi con una lettera datata 24 Novembre 1656 informa il Principe Colonna che il male dilaga senza alcuna sosta e che il popolo non potendo digiunare, perché stremato dal morbo malefico, è disposto a percorrere scalzo i due chilometri che separano il Convento di San Lorenzo dal paese, per strappare al Beato Andrea Conti la grazia desiderata (questo accadeva il 25 Novembre 1656 festa del Beato). Ne riportiamo il testo:

Em.mo et R.mo Ho ricevuto una di V.E. con molto mio gusto e son certo dell’Affetto che mi prova perché ho visto gli effetti. Mi dispiace rispondere che credo gli apporterà qualche disgusto et mandargli la nota che segue, il male ti credi, che non cessa, ma moltiplica assai. Mi creda certo, che se domani lì 25 del Corrente non si ottiene grazia al Beato Andrea che è festa sua; essendo disposto non il popolo a digiunare, io andarci devotamente scalzi. Vedrà che pochissimi si salveranno.

Questo è quanto mi….. e ti fo pro.ma riverenza. Dal Piglio lì 24 di 9bre 1656. D.V.E. Obblig.mo Sempre Dom.co Janardi Arc.te del Piglio”. 

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