CINEMANIA: Bohemian Rhapsody

Niente sorprese, niente iniziative, un vero e proprio “compitino” che non vuole scontentare nessuno

di Andrea Lepone

 

Il personaggio di Mercury appare spesso piatto, banalizzato, lontano anni luce dallo splendore che ha caratterizzato l’immenso artista di origine parsi

Distribuito nelle sale cinematografiche italiane a partire dallo scorso 29 novembre 2018, “Bohemian Rhapsody” è riuscito a dividere la critica come pochi altri film hanno fatto negli ultimi anni. Se da un lato la pellicola di Bryan Singer, regista noto soprattutto per il filone degli “X – Man movie”, esalta fino allo sfinimento i tratti distintivi di Freddie Mercury e dei Queen, in un vero e proprio tributo atto a far saltare i fan più accaniti giù dalle sedie, dall’altro non riesce mai ad imporsi con la dovuta originalità scenica. In poche parole, si tratta del solito biopic: l’infanzia modesta del protagonista, i traumi, la svolta che porta al successo ed un prezzo salato da pagare: tossicodipendenze, relazioni instabili. A tutto ciò, fa seguito un’inevitabile caduta, con conseguente redenzione e finale drammatico. Un copione scontato, una schema narrativo quasi obbligato. Eppure, non sono mancate le buone intenzioni e l’impegno degli interpreti: Rami Malek dà fondo a tutte le sue doti attoriali per incarnare una delle più grandi icone della storia della musica rock, ma il risultato finale è tutt’altro che soddisfacente. Il film inoltre, si concentra unicamente sull’ascesa, la solitudine latente e l’infelicità del frontman nato a Zanzibar, il quale sembra quasi avere il desiderio spasmodico di far parte di un gruppo. Ma il personaggio di Mercury, che deve anche sottostare a qualche cliché omosessuale di troppo, appare spesso piatto, banalizzato, lontano anni luce dallo splendore che ha caratterizzato l’immenso artista di origini parsi. L’impressione è che il regista de “I soliti sospetti” non abbia avuto voglia di esporsi; niente sorprese, niente iniziative, un vero e proprio “compitino” che non vuole scontentare nessuno, ma che purtroppo, a causa di questa neutralità esasperante, non riesce a cogliere nel segno. Va detto che la produzione del lungometraggio è stata strettamente sorvegliata dai membri superstiti della rock band britannica, in particolare dal chitarrista Brian May, che si sono prodigati affinché la pellicola non arrecasse alcun disturbo a critici e appassionati, preservando in tutti i modi l’immagine del loro leader. Peccato che, così facendo, sia decaduto il proposito principale dell’intero film: glorificare ed onorare, in modo degno, la vita tormentata di Freddie Mercury. Invece, agli spettatori è stata offerta un’opera che talvolta trascende l’aspetto umano dell’artista per insinuarsi in improbabili percorsi analitici di carattere etico e didattico.

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