Stuprata da figli di ‘ndraghetisti viene frustata dalla zia perché li ha denunciati

Sua zia, mentre la frustava fino a farle colare il sangue, brandendo una corda come un’arma di odio, le gridava: “Tu non meriti di vivere, lurida”. La teneva immobile il cugino, serrandole la bocca con forza per soffocare ogni urlo, ogni traccia di dolore umano. Sei mesi più tardi, quella stessa zia la intravide per caso lungo la strada, e la colpì con pietre, senza preavviso, come se vederla in vita fosse una bestemmia.

Punita dalla famiglia

Era questa la condanna inflitta a una ragazza di Oppido Mamertina (RC), colpevole solo di aver trovato il coraggio di denunciare gli orrori che aveva subito: stupri perpetrati da giovani del posto, alcuni figli di famiglie legate alla ‘ndrangheta di Seminara. La sua scelta, quella di rompere il silenzio, fu bollata dalla famiglia come un tradimento imperdonabile. Un’onta, come riportato negli atti della Procura di Palmi, che avrebbe potuto scatenare vendette, portare rovina.

E fu proprio la zia a proporre qualcosa di disumano: una visita ginecologica per “provare” la sua verginità e trovare un appiglio a favore dei carnefici, per facilitare la loro liberazione.

L’agonia inflitta dai suoi familiari

La giovane ha rivelato che la sua famiglia non voleva giustizia, voleva oblio. Le pressioni si fecero quotidiane, feroci: “Mi chiedevano di ritirare le accuse. Temevano vendette, ma non per me: per loro stessi”. Il fratello, la moglie di lui e la zia (oggi tutti ai domiciliari) temevano ciò che la verità poteva scatenare, pur sapendo che sei dei violentatori erano già stati condannati a pene tra i 5 e i 13 anni.

Le aggressioni continuavano, mese dopo mese. Il 7 maggio 2024, mentre camminava vicino alla casa della zia, venne colpita da una pietra lanciata senza alcuna ragione. Un colpo secco al fianco, un messaggio muto ma chiarissimo: non sei al sicuro, non lo sarai mai. La giovane, però, tace. Non dice nulla a nessuno, nemmeno alla madre con cui adesso vive, in una casa protetta assegnata dalla Prefettura.

“Non ce la faccio più”: il grido in un messaggio sussurrato

Un’unica persona, in tutto quell’inferno la ascolta: Francesco Prestopino, agente della polizia giudiziaria e amico della vittima. A lui, la ragazza affida ciò che resta della sua voce. In un messaggio su WhatsApp, spezzato dal peso della disperazione, scrive: “Ciao Francy, non ho un minuto di pace. Ti prego, aiutami… voglio allontanarmi da mia zia. Non ce la faccio più”. Sarà lui a incoraggiarla a sporgere denuncia.

La chiama in casa per aggredirla

In un verbale dell’8 gennaio 2025, la giovane racconta un altro episodio. La zia la chiama con un cenno. Lei entra in casa. C’è anche il cugino. La corda è già tra le mani della zia, pronta. Senza preamboli inizia a colpirla: gambe, schiena. Il cugino la blocca, le copre la bocca. Lei non può gridare, non può fuggire. Solo subire. “Devi morire, puttana”, le sibilava la zia, mentre la carne si apriva sotto i colpi.

Il fratello e la furia cieca, botte, umiliazioni, minacce di morte

Neanche suo fratello ha esitazioni. Dopo lo stupro, la ragazza gli si rivolge con la speranza che almeno lui possa capire. Ma l’unica risposta che riceve sono pugni e calci. La umilia, poi la minaccia con un coltello, alla presenza della moglie. Un altro agguato psicologico. Un’altra conferma che in quella famiglia non c’era rifugio, solo tortura. Le violenze servivano a un solo scopo: controllare, reprimere, mantenere “pura” la ragazza come se fosse un oggetto da custodire per l’onore malato della famiglia. Il fratello arrivava persino a imporsi sulla madre, obbligandola a vestirsi in modo “decoroso”, e a minacciare entrambe di morte se la sorella fosse uscita da sola.

Un giorno, dopo averla vista parlare con un operaio comunale, la zia le aveva lanciato contro due taniche piene d’acqua, come se anche un saluto fosse un’offesa da punire.

Perché?

Le ragioni di questi assurdi comportamenti sono di certo molteplici, forse il degrado sociale, l’ignoranza, ma anche la paura di chi esercita il proprio potere con mezzi mafiosi. Oppure si tratta semplicemente del frutto di una educazione malata, di antichi retaggi che vogliono la donna sottomessa e silenziosa. Ma su tutte queste presunte ragioni c’è la scarsa fiducia nelle istituzioni che, sono sostituite dai potenti mafiosi locali, e guai a mettersi contro… Ogni considerazione appare vana, ogni ragionamento è inutile, se non arriva forte il supporto dello Stato, se non si attua una reale rivoluzione educativa.

Foto: poliziadistato.it